La cucina locale e le tradizioni antiche

A cena con i Celti - La coltura del riso - La paella - La paniscia - Cotechino e lenticchie - Confettura di rabarbaro - Il "taplón" - Tagliatelle al pesto - Frità e luartisi al microonde - Salame della duja - Conserva di pomodori - Rotolo di pollo all'Oreste - Osso buco con risotto - Il gorgonzola -

A cena con i Celti di Giosia G. Tiraboschi

Quel che sappiamo circa le abitudini comportamentali ed enograstronomiche dei Celti (o Galli, secondo la terminologia Romana), lo dobbiamo agli autori latini che, pur di parte, ne hanno tramandato vari aspetti. Premesso che la maggior parte dei popoli antichi pranzava (o meglio, cenava) una volta al giorno, di solito al tramonto, dopo aver consumato, di norma, un semplice pasto mattutino all'alba, per meglio affrontare una giornata intera di fatiche, le varie informazioni che ci sono giunte riflettono tutte lo spirito e la ritualità che caratterizzavano questo pasto considerato il pasto principale.

Innanzi tutto occorre precisare che il rito della cena presso i Celti coinvolgeva tutta la famiglia allargata a parenti, più o meno stretti, ovvero ciò che spesso corrispondeva alla tribù di un villaggio. Il cibo era servito in piatti di terraccotta o di legno di uso collettivo, praticamente come avveniva fino al medioevo, e da questo ciascuno si serviva con le mani e con i coltelli, a volte con puntali in legno (donne e bambini). La carne di selvaggina o di animali da allevamento (anche di grossa taglia) era cotta semplicemente su spiedi o lastre di pietra, a volte farcita con erbe aromatiche.

La salatura era un lusso che non sempre ci si poteva permettere, anche perchè le ridotte quantità disponibili da scambi e commerci erano spesso destinate al trattamento delle carni suine a lunga conservazione. Tale tecnica divenne così diffusa e raffinata che formò le basi tradizionali della stagionatura dei prosciutti, così come la conosciamo ora. Parimenti a questi barbari Italici ed Iberici si deve l'invenzione dei salami e degli insaccati apprezzati, poi, anche dagli stessi Romani.

Occorre, comunque, precisare che con il termine Celti in realtà si indica non un solo popolo in un arco di tempo ben definito, bensì un insieme di genti aventi la stessa ancestrale provenienza (pianure centro settentrionali dell'Europa dell'Est) e migranti in un arco di tempo molto esteso che inizia poco prima della metà del secondo millennio a.C. e termina all'inizio della nostra epoca cristiana. I Celti, quindi, sono una delle progenie indoeuropee per eccellenza che nei secoli si è differenziata in vari popoli di molte usanze e tradizioni a seconda della loro dislocazione territoriale. Del resto pare, oramai, certo che gli stessi Achei (Akewasa nella loro lingua originaria) fossero originari proprio delle terre sopra citate e, quindi, possono essere già considerati come un popolo di tale stirpe.

Una delle (tante) prove di ciò emerge proprio dalle loro tradizioni alimentari: mentre i popoli indigeni dell'Egeo (Cicladici e Minoici) erano prevalentemente dediti ad una dieta a base di pesce e cereali, gli Achei (ovvero i Micenei) si nutrivano prevalentemente di carni, consideravano un'offesa per l'ospite servirgli pesce ed utilizzavano i cereali per fare birra e bevande più che per ottenere pane o altro. Non solo. Erano perfettamente in grado di preparare formaggi e prodotti cagliati ovvero le tipiche provviste da lunga conservazione del latte in uso presso i Celti. Pochi lo sanno, ma alcuni celebri piatti di carne tradizionali della Grecia continentale affondano le loro radici nella cucina celtica più antica. Del resto, lo stesso Ulisse, leggendario Re miceneo di Itaca, disponeva di un elmo fatto con denti di cinghiali predati in caccia ovvero il tipico elmo delle più antiche tradizioni venatorie e militari celtico-indoeuropee.

Nell'Italia settentrionale erano insediati numerosi gruppi tra cui i Boi (Emilia), i Carni (Carnia), i Cenomani (Brescia), gli Anari (Oltrepò Pavese), gli Insubri (Lombardia), gli Orobi (tra Como e Bergamo), i Salassi (Aosta e Canavese), i Senoni (dalla Romagna ad Ancona), i Taurini (Torino) e i Vertamocori (Novara).

Ma torniamo alla nostra cena ed immaginiamo di essere ospiti di un qualsiasi villaggio Gallico-Italico, ad esempio uno dei tanti formati da Brenno proveniente dalla pianura padana, presso la città che in seguito verrà chiamata dai Romani Sena Gallica, nel Nord delle Marche, nel III secolo a.C. nel punto privilegiato di contatto tra le civiltà Gallica, Umbra, Picena, Etrusca, Latina e Greca; siamo, ovviamente, nel periodo di massima potenza militare della pura tradizione celtica Italica, anche se questo popolo appare ancora rozzo e nomade al confronto dei Latini.

Per prima cosa avremmo notato, seduti attorno al grande focolare, i guerrieri con vesti e mantelli rossi che per nessun motivo al mondo avrebbero lasciato altrove e la loro pesante spada; avremmo notato fibule in bronzo di matrice nordica con riproduzioni di animali fantastici e mitologici, con chiare simbologie religioso-scaramatiche; tra di essi avremmo notato dei soldati con una più pesante armatura a protezione del petto ed un elmo in bronzo di tipologia greca: altri non erano che gli Ufficiali mercenari Etruschi spesso assoldati, con diritto di saccheggio, dai condottieri Celti per avere maggior disciplina sul campo di battaglia tra le file degli irruenti guerrieri indigeni.

Poi avremmo visto, in disparte ma molto rispettati e serviti dalle donne, alcuni Druidi vestiti di tuniche bianche con ornamenti semplici ma simbolici; infine avremmo visto moltissimi bambini e giovani vestiti prevalentemente di lana e pelli colorate, sia di fattura grossolana di tipo indigeno che di migliore qualità di origine Picena o Sabina, affaccendarsi nelle preparazioni rituali e nella cottura dei cibi unitamente ad alcune donne all'uopo incaricate; serve e schiavi avevano solo compiti di pulizia e preparazione dei cibi destinati alla cottura. Non erano considerati degni di presenziare alla cena e dovevano arrangiarsi a mangiare scarti in disparte. Ora inizia la cena: guardiamoci attorno. L'ospite non siede tra i guerrieri ma ha comunque un posto di riguardo alla vista del Capo del villaggio; in genereè tra i primi ad essere autorizzato a servirsi nei piatti di portata a suo piacere e gradimento: l'importante è non rifiutare alcun cibo per non offendere il villaggio.

Le carni sono di vario tipo: suine, ovine, caprine e, quando possibile, cacciagione. Nel periodo storico citato viene prodotto un pane di farro o frumento simile alle piadine di tradizione latina, ma questo, in genere,è consumato come tale da donne e bambini in quanto i maschi adulti lo usano più come piatto su cui poggiare il cibo che come contorno. Si mangia tutto, tranne gli ossi: anche i ripieni di erbe vengono masticati senza problemi. Il vino (a volte importato ma, nel periodo considerato, già prodotto sui colli della Vallesina da vitigni greci provenienti dalle isole ioniche) viene bevuto diluito con acqua di mare al 10% o con acqua di fonte al 20-25%: solo i ricchi e potenti nobili e guerrieri se lo possono permettere, o per averlo predato in qualche razzia, o per averlo ottenuto da scambi commerciali più o meno corretti. Lo offrono agli ospiti; tutti gli altri bevono birra ottenuta facendo fermentare in acqua dei pezzi di una specie di pane di orzo ottenuto dalla farina di semi pregerminati per ottenere i lieviti necessari.

Per la birra bionda, come la conosciamo noi, dovremmo andare tra i Celti iberici inventori della birra moderna (compresa quella tedesca). Si beve in corni tipici della tradizione nordica ma anche per mezzo di raffinate coppe in terraccotta, di varia tipologia, di fabbricazione etrusca e greca, a sfondo nero con figure rosse e viceversa. I Capi più nobili e ricchi bevono spesso usando coppe di bronzo con ornamenti a sbalzo di lavorazione locale a scopo rituale. Le coppe in oro vengono usate solo come corredo funerario o per particolari libagioni dei Druidi.

Ad un certo punto del banchetto viene servito ai guerrieri dell'idromele (acqua di fonte con miele fermentato); non sappiamo quando e perchè, ma potrebbe ,forse, essere il rito equivalente a quello nostro del brindisi con lo spumante dolce. Forse questo è il momento di maggior festa con risate e balli ma anche il più pericoloso per risse e dispute mai sopite e rinvigorite dal vino bevuto.

Il formaggio, cioè la cagliata fresca, è presente in grosse ciotole per bambini e donne gravide giacchè i guerrieri lo mangiano al mattino o durante la giornata come rinfrascante unitamente a Yogurt e miele come corroboranti; la stagionatura del formaggio è utilizzata solo per la provvista durante i viaggi. Il miele è molto apprezzato, viene dato ai bimbi più piccoli e serve come aromatizzante per alcune carni; i Druidi lo utilizzano anche per curare le ferite. In quel periodo è già prevalso l'uso romano di chiudere il pranzo con frutti coltivati o di bosco: in ogni caso questi sono spesso mangiati come intermezzo tra una portata di carne ed un'altra.

Le mosche prosperano e l'igiene è nulla, ma questo non è un problema: fin da bambini hanno sviluppato anticorpi alla dissenteria da far invidia ad un coccodrillo del Nilo! Gli ossi del banchetto vengono gettati ai cani ma non sono solo questi, in ultimo, ad aggirarsi tra i commensali: a volte vi sono anche animali da cortile e piccoli maiali che per la loro ridotta stazza vengono tollerati. Li lasciano, infatti, girare indisturbati, anche perchè, in caso di necessità dei commensali, sono già prontamente disponibili allo spiedo.

Il banchetto termina alla luce delle fiaccole tra gente che si addormenta ubriaca ed altra che ordinatamente si ritira nella propia capanna con basamento in pietre e parte elevata in legno e paglia unitamente ai propri familiari. Le donne dell'aristocrazia militare hanno ornamenti vari anche in oro ed ambra, mentre quelle più umili si adornano con monili di comuni pietre dure. Mentre tutti si addormentano il Druido osserva le stelle e quanto gli resta attorno: dovrà prevedere gli eventi del giorno che seguirà al sorgere del sole; non sappiamo se dormirà in una capanna poichè, spesso, si assopirà sotto ad una quercia sacra dalla quale spera di ottenere ispirazione.





La coltura del riso

Da molto tempo il nostro territorio vede primeggiare, tra le varie colture agricole, quella del riso. A questa produzione era legata, e in parte lo è ancora, la gastronomia di Novara e del suo territorio, una cucina semplice, con pochi piatti ma sostanziosi.

La produzione del risone e la conseguente produzione di riso da parte delle riserie occupa i primi posti nell'economia agricola del territorio novarese. Le aziende agricole coltivano principalmente risi fini e semifini, ma anche risi di varietà Indica destinati alla produzione di riso parboiled. Il riso è stato classificato secondo 5 categorie:



Pur essendo molto versatile, il riso da noi è usato come primo piatto e da ciò deriva il suo basso consumo perchè è in competizione con la pasta. Nel nostro territorio, accanto al tradizionale risotto, il riso è utilizzato per preparare la paniscia, un primo piatto che prevede numerosi ingredienti, tra cui verza, fagioli freschi, sedano, carota, cotenne tagliate, acqua, sale, burro, lardo, cipolla, riso, il salam d'la duja e vino rosso. Ovviamente le ricette della "paniscia" sono molte, quasi una per ogni famiglia, per ogni paese, per ogni provincia, ma i principali ingredienti sono per tutti gli stessi.

Per prima presentiamo una ricetta pescata in Internet dal titolo: Paniscia di Novara.
Ingredienti
360 g di riso, 50 g burro, 50 g di lardo, 70 g di cotenne di maiale, 1 salame, 200 g di fagioli freschi borlotti, 1 cipolla, 1/2 cavolo verza, 1 carota, 1 gambo di sedano, 1 cucchiaino di salsa di pomodoro, 1 bicchiere di vino rosso, sale e pepe.
Preparazione
Lavare e fare a pezzi tutte le verdure (meno la cipolla) e le cotenne, metterle in pentola con 2 litri di acqua salata, lasciandole bollire per quasi 3 ore. Poco prima che le verdure abbiano finito di cuocere, fare un soffritto in una casseruola con il lardo tritato, la cipolla affettata sottile, metà del burro e il salamino sbriciolato. Rosolare un po' e poi aggiungere il riso, mescolare e aggiungere il vino. Quando questo è evaporato, abbassare un po' la fiamma e aggiungere, poco a poco, tutto il brodo con le sue verdure, fino a completa cottura del riso. Spento il fuoco, mescolare nel risotto il rimanente burro e spolverizzarlo di pepe, senza aggiungere formaggio.





La paella di Livio G. Rossetti

La paella è un piatto tradizionale della cucina spagnola, a base di riso, zafferano, verdure, carne e frutti di mare ed è originario della Comunità Valenzana. La parola valenzana paella deriva dal latino patella, dal quale è derivato lo spagnolo medievale padilla e l'italiano padella. In origine il termine indicava una padella larga e poco profonda in ferro, munita di due impugnature, che veniva utilizzata nella Comunità Valenzana per cucinare vari piatti a base di riso. Paella indica anche il piatto preparato tramite la particolare padella che ha preso il nome di paellera, che però, nella Comunità Valenciana, indica invece la persona incaricata di preparare il piatto. Non avendo la padella di ferro, ho usato una mia padella di rame, del diametro di 40 centimetri circa e profonda 15 centimetri. Noi faremo una paella de marisco, come si dice in spagnolo, senza la carne e con poche verdure.

Servono:


Non contando il tempo di preparazione del brodo e della preparazione dei molluschi e crostacei indicati (precottura e taglio di seppie e calamari), dall'inizio del soffritto alla fine della cottura della paella, rispettando i tempi previsti per i vari passaggi, serviranno circa 50 minuti.

La prima operazione consiste nel preparare il brodo: per ogni etto di riso che useremo (in parole povere la dose di riso per persona) verseremo in una capace pentola 2 etti di acqua, poi si aggiunge il brodo rilasciato dalla apertura delle cozze sul fuoco e volendo di vongole gamberetti o scampi, il cosiddetto fumetto di crostacei (preparato con gli scarti di un mix di gamberetti, scampi, cozze e vongole, ecc.), alla fine si aggiungono 2 o 3 dadi vegetali (dipende dalla quantità di brodo preparato in base al numero dei commensali); oppure, al fumetto di crostacei si unisce una cipolla, una carota, un gambo di sedano e un poco di vino bianco e si cuoce il tutto per almeno 50 minuti; poi questo brodo deve essere filtrato. Questo brodo lo si deve preparare prima e tenere al caldo, pronto per l'uso.



Preparare un soffritto nella pentola di cottura della paella, con cipolla gialla, carota e sedano e olio evo: la quantità dipende naturalmente dal numero delle persone.

dopo circa 7 minuti si devono aggiungere nel soffritto le seppie precedentemente pulite e tagliate a pezzetti (2/3 cm)

dopo 5 minuti si aggiungono i calamari già puliti e tagliati a pezzetti e si aggiunge 1 bicchiere di vino bianco (per chi lo vuole si aggiunge un poco di pepe macinato)

dopo 10 minuti si aggiungono le cozze e le vongole, già aperte prima sul fuoco e sgusciate

dopo 10 minuti di cottura si unisce il riso parboiled e, poco alla volta, il brodo caldo e, stemperato in poco brodo, lo zafferano

si porta a bollore il riso per 10 minuti, mescolando i vari ingredienti; a questo punto si può continuare sul fuoco o, meglio, mettere in forno già caldo a 200 gradi per 10 minuti

nei due casi, dopo questi 10 minuti, si aggiungono i piselli, mescolandoli, e ...

si prosegue per altri 10 minuti la cottura o sul fuoco o in forno



Terminato questo tempo si spegne il fuoco, o si toglie la padella dal forno, e si inseriscono i gamberetti crudi (sgusciati prima) o gli scampi (scottati sul fuoco in anticipo)

si mescolano gli ingredienti, si versa un filo di olio extravergine su tutta la paella, volendo si spolvera la paella con una grattuggiata di buccia di limone o di zenzero e si distribuisce, a chi piace, un poco di prezzemolo tritato, e si serve la paella nei vari piatti (quella che vedete nella foto centrale qui sopra è la quantità abbondante per dodici persone, con un chilo di riso e due chili di molluschi e crostacei; alcuni hanno fatto il bis e poi è avanzata anche un poco per il giorno dopo).





La paniscia di Oreste Lesca

Per questioni di pigrizia o se volete, velocità nella preparazione, la mia ricetta è appena un poco diversa; dopo aver provato anche quella con la fidighina sotto grasso, ho deciso che è più buona mangiarla da sola e non aggiungere il sapore troppo deciso alla paniscia che prende in gola dopo cottura. Per quanto riguarda il salame della duja, metterlo all'inizio lo fa diventare troppo duro, per cui lo aggiungo assieme ai fagioli borlotti già cotti al vapore perchè quelli freschi non si trovano sempre, quelli secchi vanno prima messi in ammollo e quelli in scatola se scolati perdono parte dei componenti ma non scolati a molti non piace l'idea di aggiungere al piatto il liquido di governo, opto per i cotti al vapore.
Per il pomodoro, ai pelati preferisco i pezzettoni ma non la passata se no, va bene anche un poco di conserva. Il vino, va bene il barbera o altro che gli assomigli, io ho usato il nero d'Avola perchè quello avevo a portata di mano e non si è offeso nessuno. Per il riso preferirei il semifino Maratelli ma non lo trovo da anni, un semifino Rosa Marchetti va benone ma non si trova facilmente nella grande distribuzione, rivolgetevi a un Arborio o Vialone, non importa di quale produttore, e il risotto esce comunque.

Fate imbiondire mezza cipolla che dovrebbe essere gialla già in origine, nel burro, io ci metto burro, un po di grasso di prosciutto, la cui cotenna uso al posto delle cotenne lunghe da preparare, un poco di olio di oliva. Altri usano un soffritto di lardo o di strutto, non è proibito, tanto non si mangia tutti i giorni se no anche il burro e il grasso del prosciutto andrebbero evitati. Su cipolla e riso imbionditi va fatto sfumare mezzo bicchiere di vino nero.

A parte avrete preparato un brodo di acqua salata con foglie di verza verde ma anche bianca, carota, sedano e la cotenna del prosciutto, a volte ci metto un pezzetto di porro, gusto personale, il tutto a pezzettoni e in tempo perchè la verdura sia cotta, niente patate, non ci dovete incollare i manifesti. Il pomodoro lo potete mettere nel brodo o aggiungere un poco di salsa nel riso, non trovo, a cose fatte significative differenze. Per mescolare usate un cucchiaio di legno, non rigate la pentola e non vi scottate le dita.

Il brodo lo aggiungete di volta in volta sempre caldo e lasciate cuocere a fuoco vivace ma non troppo a casseruola di ghisa se ce l'avete, scoperta, altre pentole vanno bene comunque, nessuno vi verrà mai a dire, assaggiando la vostra paniscia, che non avete usato la pentola giusta a meno che non sia passato da intenditore curioso, in cucina. La cottura dipende dal riso, a me piace non troppo asciutto e al dente, per cui indicativamente 15 minuti, se il burro è sicuro ne uso un poco un minuto prima di spegnere per mantecare il riso.

Ricordatevi i borlotti e il salame cinque minuti prima della fine se seguite la mia ricetta. Un minuto prima, magari prima del burro, del pepe nero macinato al momento. Il formaggio non è previsto dalla ricetta classica nata a Suno ma se vi piace aggiungetelo sul vostro piatto ma non alla padella perchè se ne avanzate e pensate di consumarla riscaldata in seguito, è meglio che non ci sia il formaggio che, al solito se vi va, aggiungerete al piatto in tavola.
Buon appetito da Oreste Lesca





i osbus, l'ossobuco con risotto giallo, la cucina novarese dei nonni di Oreste Lesca

L'ossobuco con risotto è un piatto che ha origine nel lombardo e nel corso del tempo ha avuto diverse varianti, passando da cucina a cucina. La ricetta originale prevede la preparazione dell'ossobuco "in bianco", in quanto il pomodoro fino al XVII secolo era considerato una pianta ornamentale, e ritenuto velenoso. Il pomodoro comincia ad essere usato in cucina a partire dal XVIII secolo. L'ossobuco è un piatto prelibato, servito sopratutto con il risotto giallo allo zafferano.
Presentiamo qui la ricetta originale.

Ingredienti:

  • 6 ossibuchi di vitello
  • scorza grattuggiata di due limoni
  • 2 cucchiai di prezzamolo tritato
  • 1 cipolla e 1 spicchio d'aglio
  • brodo
  • farina bianca
  • olio extravergine, sale e pepe

In un tegame largo fate imbiondire la cipolla tritata in poco olio, praticate alcune incisioni sui nervetti degli ossibuchi, infarinateli e passateli alla cipolla. Fateli dorare da ambo le parti e insaporite con pepe e sale. Coprite il tegame e di tanto in tanto bagnate con il brodo. Preparate la "gremolata" con il prezzemolo tritato, la scorza del limone, l'aglio, mescolando bene con il fondo di cottura. A cottura quasi ultimata, insaporire gli ossibuchi con la gremolata e servire ben caldo. Se volete attenervi all'antica ricetta originale, serviteli con un contorno di risotto giallo allo zafferano.





Il Gorgonzola, il formaggio a pasta molle (uno dei prodotti per eccellenza della nostra zona)

L'origine del Gorgonzola si fa risalire all'anno Mille legata al paese omonimo. Secondo la leggenda sarebbe nata per caso, dalla distrazione di un casaro che dimentica un telo di cagliata appeso a spurgare per una notte e che il giorno dopo mescola con la cagliata appena fatta. Quando il formaggio viene tagliato ci si accorge che era screziato di verde, ma assai gradevole al palato, tanto da riprodurne la tecnica per creare nuovi formaggi erborinati (da erborin, che in dialetto significa prezzemolo).
Probabilmente, il Gorgonzola deriva dallo stracchino, quindi di quel formaggio fatto con il latte delle vacche stracche che tornavano dall'alpeggio e sostavano nei paesi pedemontani, come Gorgonzola. Da una partita invenduta di stracchini ricoperti di muffe nacque l'idea di riprodurre artificialmente quel tipo di maturazione, molto gradito alla clientela.
Questo primo gorgonzola prodotto era a due paste, nato dalla miscela delle cagliate del mattino e della sera, e con ammuffimento spontaneo. I formaggi si portavano a stagionare nelle casere, le famose grotte naturali della Valsassina (dalle fenditure della roccia fuoriesce aria fresca e umida che favorisce la maturazione).

Oggi, con l'avvento delle celle frigorifere, si procede in modo tecnologicamente avanzato: si aggiunge caglio liquido di vitello al latte pastorizzato, versato in caldaie alla temperatura di circa 30 gradi C, e innestato con spore di Pennicillium. Si rompe la cagliata in grani grossi come una noce, poi si estrae la massa e la si colloca a spurgare nelle fascere, in forme di circa 14/15 kg. Dopo un periodo di sgrondo (24 ore circa) si ha la marchiatura d'origine: sulle due facciate della forma viene impresso un numero che identifica il produttore, poi le forme vanno nel purgatorio, il locale di stufatura, caldo e umido, dove le forme sono salate.



Infine il gorgonzola va nelle celle di stagionatura. Trascorse 4 settimane si procede alla foratura, su tutti i lati, con grossi aghi metallici, per permettere l'entrata dell'aria nella pasta e lo sviluppo del penicillium glaucum, il quale determina la formazione delle caratteristiche venature blu/verdi che rendono il formaggio gorgonzola inconfondibile. Ultimata la stagionatura, le forme vengono tolte dalle fascette, frazionate ed avvolte nei fogli di alluminio forniti esclusivamente dal Consorzio di Tutela alle ditte autorizzate. Dopo 50, 60 giorni diviene pronto per il consumo.
I particolari evidenti sono la tenerezza della forma cilindrica, prodotto con latte intero, formaggio grasso a pasta cruda. Le produzioni avvengono in Piemonte nelle province di Novara, Vercelli, Cuneo e nel Comune di Casale Monferrato; inoltre, si estendono in Lombardia: province di Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Milano e Pavia.


Il Consorzio Tutela del Gorgonzola venne creato nel 1970, vigila, con propri funzionari e sotto la supervisione dello Stato italiano, affinchè la produzione avvenga nel pieno rispetto delle norme stabilite dal disciplinare di produzione e fornisce, ai produttori ed alle ditte autorizzate, i fogli di alluminio con goffrato, in rilievo, il marchio che garantisce il consumatore su un prodotto autentico. DOC dal 1955 riconosciuto DOP (Di Origine Protetta) dalla Comunità Europea, Reg. numero 1107/96 del 12.06.96.
I valori nutrizionali sono: il formaggio gorgonzola è un erborinato molle, a pasta cruda. Con un quintale di latte si ottiene una forma di circa 12 kg, e 100 gr. di prodotto equivalgono ad un valore energetico di 330 kcal pari a 1375 kj.; contengono 19 gr. di proteine, 0 carboidrati e 26 gr. di grassi, 360 mg. di fosforo (45% rda), 420 mg. di calcio (52% rda) e le vitamine A, B1, B2, B6, B12 e PP.





Il salame della duja (uno dei prodotti per eccellenza della nostra zona)

In passato l'animale da carne dei contadini novaresi era soprattutto il maiale, trasformato nei salam d'la duja e nelle fideghine.
"Salume" nel Basso Novarese è quasi sinonimo di salam d'la duja, una piccola salsiccia conservata cruda sotto strutto in orci di terracotta (chiamati in dialetto appunto duje): al naturale, morbido e pastoso grazie al grasso in cui è rimasto avvolto, e viene consumato come antipasto, cotto entra in diverse ricette tradizionali, prima di tutte la paniscia. Quello sotto grasso è uno dei sistemi di conservazione più antichi e più diffusi prima dell'introduzione della refrigerazione artificiale.

Il salam d'la duja si ottiene con un trito misto di carni scelte e magre (spalla, coppa e ritagli di coscia) e di grasso di lardo o di pancetta. La concia è costituita da sale, pepe, spezie e aglio schiacciato nel mortaio e bagnato nel vino; si insacca e si pone ad asciugare per alcuni giorni (anche due settimane) in luoghi freschi e ventilati. A questo punto i salumi sono introdotti nella duja. Lo strutto fuso che li ricopre, raffreddando, si solidifica, proteggendoli dall'ossidazione. Di solito la stagionatura varia dai tre mesi a un anno: sotto grasso, il salame acquista un gusto piccantino e rimane morbido.



Sorella del salam d'la duja è la fideghina, piccola mortadella di fegato che costituiva la merenda o il pranzo dei lavoratori durante le vendemmie nella zona collinare.
Meno caratteristica del salame d'la duja, ma altrettanto diffusa, è la produzione di salumi classici e dei cosiddetti "marzapani" o "sanguinacci", questi ultimi vengono confezionati con il sangue del maiale unito a pezzetti di lardo, pane grattugiato, spezie, aglio e vino.
Altrettanto diffuso è l'utilizzo della carne d'oca: sfruttata nella preparazione di alcuni piatti tipici, è anche ingrediente base di un salume in cui la carne viene lavorata con pancetta di maiale, vino bianco o marsala.
Queste specialità entrano nella preparazione di alcuni piatti tipici del Novarese, oltre alla paniscia, ricordiamo la cassola e la rustida. La cassola, presente anche sul territorio lombardo, è un piatto a base di verza, puntine di maiale e carne d'oca. La rustida invece è un piatto tipico di Oleggio, dove la cipolla e la salsa di pomodoro completano la rosolatura di pezzetti di cuore, polmone, salsiccia e lombo di maiale.





Cotechino e lenticchie secondo Oreste Lesca, o più giustamente, la moglie di Oreste

La ricetta si deve a mia moglie ed è piuttosto veloce e facile da preparare, tanto che ci riesco pure io. A volte aggiungo un po' di olio nella pentola di cottura delle lenticchie e un dado del gusto che mi aggrada o quello che trovo in frigo. Secondo mia moglie l'unico condimento arriva dalla salsa di pomodoro preparata a parte.

La cosa che va preparata a parte è la cottura del cotechino che foro con stecchini più volte e poi lascio in sede per mantenere i fori attivi. In una padella, a fondo basso, metto dell'olio extravergine di oliva; io uso addirittura il mosto, mia moglie si accontenta di quello nornale anche non extra perchè ha meno gusto. Taglio uno scalogno e ci metto un mezzo dado da soffritto, ma dipende da quello che ho in casa. Imbiondita la cipolla, aggiungo la polpa pronta di pomodoro, ne serve meno della metà per le lenticchie, quella che si avanza va bene come sugo per una pastasciutta.

Le lenticchie andrebbero passate per scartare eventuali impurità sempre più rare; preferisco quelle grandi a quelle piccole, ma se mi arrivano le ultime in un cesto dono non le butto via. Non le metto in ammollo ma le lavo e poi le metto in pentola ricoperte da acqua fredda, con poco olio, uno spicchio d'aglio e del rosmarino, quello ad aghi piccoli che è più profumato, o legato o in un cestellino forato per evitare di trovarsi gli aghi in giro per la pentola. Faccio cuocere aggiungendo un poco della salsa preparata a parte.

Faccio attenzione che le lenticchie rimangano intere e al dente. Spengo, prima di ultimare la cottura, e tengo coperto per una decina di minuti; nella pentola ci deve essere ancora abbastanza liquido che viene assorbito dalle lenticchie che si gonfiano. Dopo questo intervento, criticato dai cuochi, mi rendo conto dello stato di cottura, della quantità di sale o dado da aggiungere e di quanto brodo serve per ultimare e se serve aumentare il pomodoro. Aggiusto secondo il mio gusto.

Ritengo che i vari sapori non debbano prevalere su quello dell'ingrediente principale. Inoltre assaggio il cotechino: se è saporito, tengo le lenticchie un poco insipide, altrimenti si rischia di bere troppo e non va bene che sia acqua o vino.
Buon appetito





Confettura di Rabarbaro secondo Livio G. Rossetti

Da molti anni tengo nel mio orticello due piantine di Rabarbaro rapontico (Rheum rhaponticum o rhabarbarum) o Rabarbaro europeo, diverso da quello cinese. Una volta all'anno raccolgo i piccioli delle foglie, lunghi e grossi, di colore verde e rosso. Le foglie le butto perchè hanno un elevato contenuto di acido ossalico e sono troppo acidule.

Dopo aver lavato bene questi "gambi" carnosi, con un coltellino elimino i lunghi e duri filamenti del dorso, poi taglio a pezzettini di 1-2 centimetri i gambi e li metto in una grande terrina. Aggiungo 3 o 4 frutti di anice stellato (Illicium verum), un bastoncino di cannella e poi ricopro con zucchero, metà di canna e metà bianco. Copro con pellicola trasparente e lascio riposare il tutto per un giorno.

Dopo una intera giornata lo zucchero si è sciolto, incorporando gli aromi dell'anice stellato e della cannella ma anche i succhi del rabarbaro. Tolgo l'anice e la cannella. A parte prendo 2 o 3 mele Golden, le lavo bene e le taglio a pezzettini piccoli con la buccia. Metto sul fuoco e porto a cottura in circa 30 minuti. Passo il tutto nel passaverdura con fori piccoli per ridurre la buccia delle mele a dimensioni tali da non dare fastidio all'interno della confettura.

Metto i pezzetti di rabarbaro e il relativo liquido prodotto dallo zucchero con il passato di mele in una capace casseruola di acciaio e porto ad ebollizione, poi continuo la cottura a fuoco basso per almeno un'ora. Quando la confettura ha raggiunto la giusta consistenza (con un cucchiaino faccio scendere un po' di marmellata in un piatto: quando la marmellata, inclinando il piatto, scende con lentezza risultando vischiosa, allora siamo a posto), ancora bollente, la deposito mediante un mestolino nei vasetti di vetro, ben puliti, e chiudo subito il tappo metallico capovolgendo il vasetto. Dopo mezz'ora rigiro i vasetti e, quando sono ormai freddi, li ripongo in dispensa.
Provatela con i formaggi o spalmatela su di una fetta di pane leggermente biscottata bevendo un po' di tè, poi mi direte.
Livio G. Rossetti





Il "taplòn" (o tapulòn tradotto in tapulone) d'asino secondo Ornella e Livio G. Rossetti

Il "taplòn" è un piatto molto conosciuto nella nostra zona ed è considerato tipico di Borgomanero. La tradizione popolare, che risale per molti al XII secolo, vuole che questo piatto sia legato alla fondazione di Borgomanero da parte di 13 "pellegrini" un po' rozzi, chiamati Orchi, provenienti dalla chiesa di S. Giulio ad Orta, e che, affamati, dovettero cucinare l'asino che "tirava" il loro carretto. Molte sono le ricette con alcune varianti: io descriverò la versione che la signora Ornella Zoppis, della zona di Borgomanero, mi ha descritto mentre tornavo dal mio recente viaggio in Austria. Spero di aver capito esattamente la ricetta.

Le dosi sono per 4 persone: servono 1,5 kg di polpa d'asino macinata grossa (può andare bene anche di cavallo), 2cucchiai di olio extravergine d'oliva, 3 foglie di alloro e un po' di rosmarino, un po' di lardo o pancetta o cotenna di maiale pestati o burro, dell'aglio pestato, 1 bicchiere di Barbera o Bonarda, 1 litro di brodo di carne, 2 patate tagliate a dadini e, volendo, un po' di verza.

Mettere una capace casseruola su fuoco vivace (sulla fiamma più grande) con l'olio, il lardo pestato o il burro, 2 cucchiai di olio extravergine, 2 spicchi d'aglio, 3 foglie di lauro spezzettate (alcuni aggiungono 2 o 3 chiodi di garofano) e un po' di rosmarino tritato finemente. Volendo e digerendola, si può aggiungere una foglia di verza tagliata a listarelle sottili. Dopo pochi minuti si toglie l'aglio e si mette nella pentola la carne macinata a mano che deve essere sgranata con un cucchiaio di legno. Quando la carne è ben rosolata si aggiunge il bicchiere di vino e, girando bene il tutto con il cucchiaio di legno, si abbassa la fiamma e si amalgama il tutto.

A parte, in un altra pentola, si riscalda 1 litro d'acqua con un dado di carne. Quando il vino è stato ben assorbito e il brodo è ben caldo, lo si unisce alla carne, abbassando la fiamma il più possibile e solo a questo punto si sala senza esagerare (si può aggiungere anche un po' di pepe). Poi si aggiungono 2 patate, sbucciate e tagliate a dadini, lasciando il tutto a cuocere per almeno un'ora, a fuoco basso e con la pentola coperta. Naturalmente più si lascia a cuocere, più il "taplòn" viene buono. Si può servire con polenta o patate bollite o rosolate con aglio e rosmarino.






Tagliatelle al pesto secondo Oreste Lesca

I pinoli si trovano con difficoltà non in tutti i negozi, sono costosi e non ne vado matto. Il pesto non può essere definito alla genovese se sostituisco i pinoli con le noci e se non uso il pestello e il mortaio ma un frullatore a immersione: di sicuro non è più un pesto. Mantengo il nome per rendere riconoscibile il prodotto. Il basilico si può trovarlo fresco di serra, costa un pò di più; si risparmia sui pinoli ma non sull'olio che dev'essere il migliore possibile. Il formaggio può essere il grana padano più il pecorino romano o sardo. In questo caso ho usato quello romano, che assieme al grana e ai gherigli delle noci (se togliete la pellicina è meglio, ma per fare prima non la tolgo mai e il leggero amarognolo aggiunto dall'apporto di 4-6 noci è quasi inavvertibile), ho aggiunto dei pistacchi che avevo avanzato cercando di togliere la pellicina legnosa.

Il basilico lo lavo e poi lo asciuggo velocemente alla belle meglio in un canovaccio che faccio roteare fuori casa. Poco tecnologico? Può essere, ma funziona abbastanza. Metto il tutto in un vasetto con abbondante olio extra vergine (volendo si aggiunge dell'aglio) e frullo fino a che rimangano visibili piccole tracce dei prodotti iniziali. Intanto ho gia messo a bollire abbondante acqua salata nella quale butterò 500 grammi di taliatelle; 4-5 minuti di cottura. Mentre si scolano, velocemente metto nella pentola il pesto a intiepidirsi e poi aggiungo la pasta, mescolo il tutto per pochi secondi a fuoco basso ed è pronto in meno di mezz'ora di impegno con una spesa di circa 10 euro un primo abbondante per 4 persone.





Frità e luartisi al microonde secondo Oreste Lesca

Ho raccolto le punte di luppolo, a Veveri, e si vede; non confondetele, e non potete, con quelle di convolvolo, spesso crescono assieme ma la luartisa è rugosa e la campanella è liscia e lucida. A casa, per pigrizia, ho usato un contenitore per microonde nel quale le ho sciacquate: se raccogliete quelle alte basta, se no lavatele meglio. Le ho lessate con mezzo bicchiere d'acqua, pochi minuti nel microonde. Dopo averle scolate ho aggiunto un poco d'olio e del formaggio e un poco di dado iposodico, ma se non avete problemi di colesterolo, trigliceridi, pressione alta e sovrappeso, potete dare più gusto con burro e un poco di salame e un pizzico di sale a fine cottura. Ricordatevi di rompere il tuorlo d'ovo, se no nel microonde scoppia impiastricciando il contenitore, coperto ovviamente, pochi minuti a secondo dei gusti e visto che lo fanno tutti i grandi chef per guarnizione, ho aggiunto della glassa.







Conserva di pomodori secondo Livio G. Rossetti

La mia conserva, o semplicemente, salsa di pomodori misti, inizia con la raccolta dei pomodori del mio orto di varietà le più diverse, ma privilegiando i pomodori ben maturi e di piccole e medie dimensioni, rossi e gialli (sono molto dolci e diminuiscono al palato l'acidità di quelli rossi); poi raccolgo foglie di basilico e qualche cipolla gialla e rossa. Lavati i pomodori, li taglio e tolgo i semi interni che mi serviranno come semenza per l'anno successivo. Poi affetto due cipolle che unisco ai pomodori in una capace pentola di almeno 28 cm di diametro e alta almeno 30 cm; aggiungo diverse foglie di basilico, sale grosso, almeno un cucchiaio, e un po' di zucchero e comincio la cottura sul fornello a gas per almeno 30 minuti.
Si formerà molta acqua che, a fornello spento, eliminerò aiutandomi con un grosso colino cinese a cono in acciaio perforato fine e un mestolo. Quando sarà stata tolta gran parte dell'acqua e la massa di pomodori sarà abbastanza asciutta, poco alla volta verso l'impasto, pomodori, cipolle e basilico, nell'estrattore con la vasca a fori non troppo piccoli, per ottenere una salsa un po' ruvida al palato (in mancanza di estrattore elettrico si può usare il passaverdura, sempre in acciaio, con setaccio intermedio).



Per la conservazione uso i vasetti Bormioli, di piccola e media dimensione con tappi di alluminio a vite, li sterilizzo in acqua bollente e li riempio di salsa, li sigillo e li ripongo nella pentola usata precedentemente (larga e alta), anche in due strati; verso acqua fredda in modo da sommergere di alcuni centimetri i vasetti e faccio bollire per almeno 30 minuti per vasetti Quattro Stagioni da 0,15 L o 25 CL, arrivando a un'ora per quelli più grandi, sterilizzando così il contenuto che può essere conservato per alcuni anni.
Livio G. Rossetti





Rotolo di pollo all'Oreste Lesca

Tengo ferma la convinzione che la carne più gustosa sia quella vicina all'osso per cui il petto di pollo va per forza insaporito. Se già avete fatto l'acquisto di un petto di pollo intero, cercate di eliminare ossicini e cartilagini residue senza rovinarlo troppo e poi apritelo come un depliant; meglio se l'operazione viene effettuata da chi è del mestiere perchè ha gli affilati strumenti che usa con perizia. Intanto avrete messo dei peperoni rossi o gialli, o entrambi, a grigliare per guadagnare tempo. Sul petto di pollo sistemerete dei filetti di acciuga sott'olio ed eventualmente del pepe macinato fresco (il sale è già nelle acciughe e dovrebbe bastare).
In una pentola adeguata mettete dell'olio extravergine di oliva e, se potete, un pezzetto di burro buono (ho usato quello prodotto in una cascina di Alzate di Momo che potete trovare martedì mattina al mercato di Cameri); tritate grossolanamente dello scalogno o cipolla poi, se preferite, togliete la pellicina bruciata dai peperoni e disponeteli sul petto di pollo, sopra i filetti di acciuga. Cercando di arrotolare il petto di pollo farcito si capisce perchè ho grigliato i peperoni, a parte che sono più buoni e digeribili, è difficile avvolgere il peperone crudo.
Ho scoperto, facendolo, quanto sia complicato legare in modo decente il rotolo. Fate imbiondire lo scalogno e poi mettete a rosolare il pollo prima di aggiungere del brodo, potete anche mettere una foglia secca di alloro e dell'aglio.
Fate cuocere a fiamma bassa per circa 30 minuti. Lasciate raffreddare e togliete lo spago, se non si srotola e riuscite ad affettarlo in fette spesse.


Lo potete servire con qualche cucchiaio del brodo ristretto di cottura.
Provate varianti con farciture diverse, ad esempio, sempre con filetti di acciuga aggiungete dei pomodori secchi sott'olio ed olive nere tostate e snocciolate e capperi in salamoia sgocciolati, in questo caso ho sfumato con del vino bianco secco. Le olive nere le ho aggiunte verso la fine anche nel brodo di cottura.